Thierry Smolderen, nato nel 1954 in Belgio a Bruxelles, è un saggista e sceneggiatore di fumetti. Professore alla scuola di Belle Arti ad Angoulême. Collabora sin dagli inizi degli anni 80 alla prestigiosa rivista Cahiers de la bande dessinée ma anche della altra celebre rivista 9eme Art [Nona Arte].
Il suo lavoro di maggior prestigio èil fumetto creato nel 2000 ed ispirato alla vita di Winsor McCay. Ha scritto un'opera notevole Naissances de la bande dessinée [Nascita del fumetto], nel 2009, molto innovativa a livello interpretativo e storico su questo oramai più che celebre genere narrativo.
Traduciamo per il nostro blog questo suo interessantissimo saggio inedito nella nostra lingua, adatto a dare una valida idea della sua preparazione in rapporto all'argomento trattato.
Questa non è una bolla!
Strutture enunciative del filatterio
di Thierry Smolderen
Sunto: La "bolla", che per lungo tempo è potuta sembrare il mezzo più naturale per “far parlare” delle immagini, si trova oggi in concorrenza con altri dispositivi di scrittura nell’immagine narrativa. L’approccio storico proposto qui mostra il carattere non lineare, complesso della sua evoluzione, così come i motivi della sua longevità e della sua solidità.
Domande relative ad un dispositivo “semplice” ed “efficace”.
Per chi la guarda senza familiarità né compiacimento, la bolla del fumetto è lungi dall’offrire una soluzione graziosa o naturale al problema dell’inserzione del testo nell’immagine- cioè dell’incrociarsi tra due regimi di segni fondamentalmente differenti. Eppure, il lettore è talmente abituato al dispositivo che non ne percepisce più l’estraneità. Come numerosi altri elementi che partecipano all'esistenza ed al buon funzionamento del fumetto, la sua efficacia poggia sulla sua discrezione, la sua quasi-invisibilità. Quel che importa al lettore, è che le bolle permettono ai personaggi disegnati di parlare, e di fare avanzare la storia al ritmo impresso dal dialogo. Più esse sono trasparenti, più l'immersione narrativa è efficace.
Il miglior mezzo per rendere visibile l'estraneità del dispositivo è di risalirne il filo storico: quando ci si imbatte in una "bolla da fumetto" in un incisione del Rinascimento che descrive l'uno o l'altro supplizio pubblico, o in un manoscritto miniato del XI secolo, gli storici ci hanno insegnato a porre alcune domande prudenti: Si tratta di una bolla nel senso in cui l'intendiamo noi, o semplicemente di un'etichetta che identifica il personaggio, o ancora, sin dall'inizio del libro che lo ha fatto conoscere, come ciò a volte sembra?
Queste domande, che vertono sullo statuto enunciativo spesso equivoco e complicato dai filatteri antichi sollevano un paradosso: l'iso attuale della bolla è talmente più diretta ed evidente, perché ha impiegato molto tempo ad imporsi? E perché la sua storia è così confusa?
La bolla ci sembra oggi il mezzo più naturale, il più adatto nel mondo attuale per "far parlare" delle immagini- le ritroviamo persino nelle interfacce del computer. Eppure questo procedimento non ha, in tutta evidenza, seguito una "evoluzione" lineare.
Il suo antenato più prossimo in apparenza, la "banderuola parlante" (ritroviamo quest'espressione in Baudelaire), era già considerata come un procedimento vecchiotto nel XIX secolo. In quanto agli autori di storie ad immagini, sembrano anche averla deliberatamente evitata sino alla fine del 1880, in cui vediamo la "bolla" ritornare in forza alla nascita del comic strip americano (alla fine del 1890).
Queste peripezie sono difficili da riconciliare con la tranquilla certezza di una specialista del Medioevo, Danièle-Alexandre Bidon, che scrive: "È sin dal IX secolo che gli artisti hanno praticato l'inserzione nell'immagine di parole, con l'aiuto di simboli grafici semplici ,ma così efficaci che li si impiega ancora nelle immagini dei fumetti". Se esiste una vera e propria lontana (e complessa) filiazione) tra filatterio medievale e bolla del fumetto, ciò che qui ci pone un problema, è soprattutto l'idea secondo la quale la semplicità e l'efficacia del procedimento sarebbe di natura da spiegare la sua longevità.
I sociologi (in particolar modo, coloro che si occupano del campo delle scienze umane e dei cambiamenti tecnologici) ci hanno insegnato a diffidare di questo genere di scorciatoia: parlare dell'efficacia e della semplicità di soluzioni ritenute in un contesto sociale particolare non è che un modo di dire che gli strumenti considerati compiono il loro compito in modo "invisibile"- questo lavoro è dunque tanto più difficile ed importante da analizzare. Interrogandoci sulla natura di questo lavoro invisibile (nel caso della bolla), cercheremo di rispondere ad un certo numero di enigmi storici sollevati dalla concezione tradizionale del "filatterio" come soluzione semplice ed efficace al problema generale dell'inserzione del testo o della parola nell'immagine.
Se bastasse utilizzare questo procedimento affinché ne risulti una lettura fluida, ritmata e confortevole delle storie ad immagini, come spiegare i suoi cambiamenti di fortuna storica? Perché Töpffer non l'ha mai praticamente utilizzato nelle sue proprie storie?
Rodolphe Töpffer (1799 - 1846) Esempio di caricatura con filatterio.
Perché la banderuola parlante compare nelle vignette politiche inglesi e francesi del periodo napoleonico, e praticamente mai nelle storie ad immagini (dette "sequenziali") che nascono poco dopo, a volte dalla matita degli stessi autori?
Perché finisce per rinascere durevolmente quando inizia il secolo della comunicazione audio-visuale e dei mass media, quando la si credeva superata e vecchiotta?
E poiché qui si tratta di rivelare la parte invisibile del dispositivo- e soprattutto le differenti strutture enunciative alle quali dà corpo nei contesti storici, culturali e tecnici di una grande diversità- ci porremo anche la questione del futuro della bolla parlante. Il periodo che attraversiamo è interessante su questo piano perché altri dispositivi di scrittura nell'immagine narrativa, implicando altre strutture enunciative, stanno emergendo così come allo stesso tempo un nuovo fumetto di ispirazione autobiografico o documentario. Presto non sarà più possibile considerare la bolla come il modo "naturale" di inserzione del testo nel fumetto, perché queste altre procedure vengono a combinarvisi, a volte anche a sostituirsi con delle strutture di enunciazione inediti. Non è nemmeno impossibile che la bolla esca di moda molto rapidamente. Il momento è dunque ben scelto per cercare di comprendere ciò che cambia, e ciò che si gioca nella storia del filatterio.
Ciò che noi chiamiamo "bolle" del fumetto oggi, e che gli Anglosassoni chiamano "speech balloons" e gli Italiani "fumetti", non è sempre stato chiamato così. In quale modo questi dispositivi sono stati designati nei diversi contesti storici dalla loro apparizione nell'arte occidentale, intorno al IX secolo? Questa storia rimane ancora da scrivere. Qualcosa comunque colpisce quando facciamo la lista dei termini conosciuti: filatteri, etichette, bandiere, banderuole, anelli (loops), fumetti, ballons... Tutti senza eccezione, poggiano senza eccezione su una metafora visuale reificatrice che mostra che i loro utilizzatori vedevano nel dispositivo tutt'altra cosa che un segno puramente convenzionale- come possono esserlo, ad esempio, le virgolette che segnano l'inzio e la fine di una citazione in un testo scritto.
Il termine filatterio è particolarmente interessante- e forse fondativo- di questo fenomeno di reificazione. In origine il filatterio, antidoto in greco, designa una formula di protezione che si portava su di sé come un talismano, per preservarsi dalla cattiva sorte e dalle malattie, nell'Antichità. Lo si utilizzava anche per descrivere l'uso ebraico ortodosso, che consiste nel portare al braccio o sulla fronte delle strisce di cartapecora o pelle di vitello sulle quali sono iscritte dei versetti della Bibbia. La parola è ripresa nel Medioevo per designare le banderuole dalle estremità arrotolate, che permettono l'inserzione di legende in diversi tipi di immagini (architettura, scultura, arti grafiche). Le bolle dei fumetti derivano in modo molto remoto dai filatteri medievali.
Un altro termine, molto meno conosciuto oggi, etichetta (label), designa, durante il XIV secolo, una striscia o una fascia, che permette di attaccare un sigillo ad un documento. L'uso del termine etichetta è attestato verso la metà del XVIII secolo, in America, in un testo in cui sono evocate le etichette di un cartoon politico- che sono certo dei filatteri. Un dizionario di termini artistici del XIX secolo (Fairholt, 1854) attribuisce inoltre a questa parola un senso equivalente a quello della vecchia parola di origine greca: nell'arte medievale, la rappresentazione di una stricia o una fascia contenente un'iscrizione.
L'operazione di reificazione di cui testimonia questa terminologia merita che vi si dedichi del tempo. Innanzitutti, essa sottolinea il fatto che il testo si inscrive nell'immagine attraverso la mediazione di un "veicolo" identificabile, assimilato al filatterio antico (o al sigillo, nel caso dell'etichetta). Sul piano strettamente grafico, l'astuzia del dispositivo consiste nell'inscrivere il testo in una zona ben circoscritta che ne garantisce la leggibilità, senza per questo spezzare l'illusione della rappresentazione. Questa descrizione del procedimento ne dà tuttavia conto di un'altra dimensione impressionante della terminologia. Le origini delle due parole, filatterio ed etichetta, suggeriscono che ciò che è reificato, è meno il testo stesso che l'autorità che lo veicola, la sua potenza magico-sacra (nel caso del filatterio) o la garanzia della sua autenticità (il sigillo del documento, per l'etichetta).
Questo dispositivo "semplice" ed "efficace" rinvia dunque a potenti strutture di enunciazione e di autorità: la forma originale del filatterio (l'antico rotolo da scrittura) integrava l'immagine in un quadro generale di lettura (quello delle parafrasi e commentari autorizzati dai chierici), che doveva apparire perfettamente naturale ai lettori dell'epoca.
Ogni forma di immersione narrativa immerge il lettore in un mondo parallelo, fondato su una rete di strutture implicite di autorità e di enunciazione che lo rilega al mondo sociale e culturale. Abitare una storia, è orientarsi "machinalmente " nel suo quadro enunciativo. Il senso delle parole, degli avvenimenti, delle situazioni che ci sono riferite dipende da chi ci parla attraverso il testo, e con qualche autorità, e nel quadro enunciativo. In un racconto verbale, queste strutture sono essenzialmente linguistici, in un racconto misto (immagine e testo), le chiavi possono essere di ogni ordine, il che complica evidentemente il problema moltiplicando il numero di griglie di letture possibili. Se non possiedo quella buona, sarò incapace di parafrasare la storia narrata. Ora questo lavoro (virtuale ed invisibile) di parafrasi, è quanto fa la differenza tra il testo-artefatto (al quale avrà accesso l'archeologia, tra cinquemila anni) ed il testo-habitus (nel quale il lettore contemporaneo evolve come nel suo ambiente naturale).
Il morto di fronte al suo giudice (1420). Da Les Heures de Rohan.
L'esperienza singolare del Robinson de Dumoulin mostra la difficoltà dell'operazione quando l'autore stesso non giunge (a causa del modello o del precedente) a definire il quadro enunciativo che permetterà di articolare il testo e l'immagine.
Apparso verso il 1810 questa "collezione di 150 incisioni rappresentante e formante una sequenza non interrotta di Voyages et Surprenantes Aventures de Robinson Crusoé [Viaggi e sorprendenti avventure di Robinson Crusoë], disegnati e incisi da François Aimé Louis Dumoulin, si dà -a livello di titolo- un programma che, nella sua formulazione, somiglia alla definizione moderna di fumetto: raccontare una storia complessa con una sequenza non interrotta di immagini (quest'ultima mirante, all'occorenza, a prenderne il posto del romanzo originale).
Il Robinson interamente illustrato da Desmoulin nel 1810.
Annie Renonciat ha dimostrato ha dimostrato molto bene gli scarti rivelatori tra questa esperienza ed un fumetto moderno, ma quel che qui ci interessa soprattutto, sono certe difficoltà incontrate da Dumoulin nella scritture delle legende: A volte- alla maniera delle stamper popolari- egli riassume gli episodi con un eneunciato posto in apposizione: "Robinson essendo schiavo presso i Mori..."; "Robinson avendo abbattuto un pappagallo..."; Robinson dopo essersi salvato dalla schiavitù"; ecc. Ma l'esercizio è grammaticalmente delicato e conduce spesso il nostro artista ad uno sproloquio comico: "Robinson avendo messo fuori combattimento i due selvaggi che rincorrevano il loro prigioniero ed avendo prestato la sua spada a quest'ultimo che tagliò la testa del primo selvaggio che non era che stordito dal colpo che aveva ricevuto e gli portò la sua testa, si fece suo schiavo per riconoscenza".
Dumoulin incontra anche delle difficoltà ad unificare i tempi della sua narrazione, oscillando tra presente (dominante) e passato dell'indicativo, senza ben padroneggiarne la concordanza. Come ci si poteva aspettare, queste difficoltà sono tipicamente enunciative. Lo "sproloquio" di Dumoulin mostra che non giunge a generare una struttura sufficientemente robusta per "abitare" il suo Robinson.
Non ci sono dubbi, il problema non viene né dall'isola né dal romanzo originale, ma dal genere nuovo che Demoulin cerca di comporre ex nihilo. Vi sono tante frome grammaticali e temporali possibili, di modo da distribuire tra lo spazio-tempo della storia e quello delle immagini, tanti ritmi di frasi da scegliere, di informazioni da gerarchizzare ed a filtrare... Come costruire la buona parafrasi-testo, che verrà utilmente a colmare le brecce della "sequenza interrotta" di immagini, ed assicurare una lettura parallela fluida ed immersiva? Gli manca una griglia di lettura enunciativa adeguata.
Bisognerà attendere le prime storie di Töpffer (negli anni 1820-1830) per vedere emergere una soluzione particolare a questo problema. Questo dispositivo töpfferiano non include il filatterio, come è noto. Ecco uno di quei paradossi maggiori della storia della bolla che prova che essa non può essere l'accessorio semplice, efficace e naturale delle storia raccontate ad immagini. Perché Töpffer conosceva perfettamente la procedura e l'aveva anche praticata in alcune delle sue caricature.
Ci manca lo spazio per fare la storia del filatterio nel Medioevo sino all'età in cui Rodolphe Töpffer inventa un nuovo genere, ma se dobbiamo continuare una simile indagine, studieremo i racconti ad immagini integratori dei testi (sotto forma di filatteri od altro) come degli apparati di enunciazione misti di cui non vediamo che l aparte emersa, l'artefatto fossilizzato e non le parafrasi viventi, spontanee prodotte da lettori che ne hanno fatto il loro abito. Cercheremo di ricostituire per i suoi propri meriti la struttura enunciativa che sottende questi apparati, guardandoci bene da ogni comparazione riduttrice con la forma supposta "compiuta" del fumetto.
L'Orribile ed Infernale Complotto Papista del 1682, un libello disegnato dal primo maestro dell'illustrazione inglese Francis Barlow (1626?-1704) ci fornisce un bel esempio di artefatto "intrappolato"- facile da scambiarsi "del tutto semplicemente" per un fumetto. Nella parte bassa del documento sono stampate alcune colonne di testi (una lunga ballata da cantare su un aria nota e tutto un apparato di note), mentre la parte alta è incosa all'acquaforte. Essa presenta tre strisce di quattro immagini, formanti un racconto sequanziale di 24 vignette. Delle "banderuole parlanti" escono dalle labbra dei personaggi praticamente in ogni vignetta. Quest'ultime sono dotate di didascalie, con due righe di testo versificate.
Se ci si limita a quest'elemento (l'alto della pagina), è molto difficile evitare la comparazione con il fumetto, malgrado alcune differenze: le didascalie versificate ci portano da una vignetta all'altra, molto più dei filatteri (che non contengono che delle esclamazioni o delle frasi lapidarie); i nomi di alcuni personaggi sono a volte inclusi nella rappresentazione; qua e là, come in uno shema didattico, delle lettere dell'alfabeto sono poste su certe fugure, rinviando alle note.
Quando si affronta "spontaneamente" L'Orribile ed Infernale Complotto Papistacome un fumetto, possiamo facilmente trarne un'impressione generale di linguaggio non del tutto ben padroneggiato, di medium un po' arcaico e goffo, ma che è manifestamente sulla "buona strada"- quella che porta, dritto alla Nona Arte. Questa reazione non ha tuttavia alcuna base logica: dire che il medium è sulla buona strada o che il suo lunguaggio non è ancora ben padroneggiato non ha evidentemente alcun senso.
Francis Barlow (e altri?) L'Orribile ed Infernale Complotto Papista (1682).
In realtà, L'Orribile ed Infernale Complotto Papista (1682), è una parodia di un'estrema sofisticatezza. Il suo carattere composito (miscuglio di incisione e tipografia) era molto oneroso da realizzare e bisogna dunque concepirlo come un tutto. Questo dicumento rinvia ad un episodio di denuncia calunniosa che sfociò sull'impiccagione di cinque gesuiti nel 1878. Cosa curiosa, il disegnatore (che non ne è probabilmente il solo autore), ha egli stesso partecipato, in un primo tempo, all'incredibile ondata di propaganda anticattolica che si era scatenata prima che il carattere menzognero dell'accusa finisse con l'esplodere apertamente.
Dal punto di vista enunciativo, L'Orribile ed Infernale Complotto Papista riflette il modo con cui il pubblico dell'epoca leggeva l'attualità attraverso il prisma di diversi media popolari (manipolati o no attraverso la propaganda)- canzoni, libelli, giornali, incisioni, ecc. I generi citati si caratterizzano tutti per l'assenza di un soggetto enunciatore dichiarato: la ballata, il racconto ad immagini e le note liminari commentano allo stesso modo impersonale, che è peculiare di questi media, la realtà falsificata attraverso la menzogna iniziale del Dottor Oates (che lanciò l'intero caso).
Dettaglio interessante, le immagini che compongono il racconto grafico riprendono, con alcune trasformazioni, i motivi di una serie di carte da gioco che Francis Barlow aveva disegnato tre o quattro anni prima, quando credeva anch'egli al complotto. Vettori di propaganda, questi giochi presentavano gli episodi più salienti del caso, spingendo il pubblico a ramentare gli avvenimenti ed a rilanciare le discussioni in famiglia e tra amici.
Il processo ed i supplizi pubblici, soggetti di scelta della letteratura popolare a stampe, suggeriscono, in abbozzo, la ripetizione rituale delle stampe della Passione, che costituisce la matrice narrativa maggiore della cultura cristiana. Le "case" di L'Orribile e Infernale Complotto Papista, cronaca dello spergiuro e del tradimento sono dunque altrettante stazioni. Poste in un apparato a molteplici livelli, e mescolando molti media differenti, questi "fumetto" suppone dunque una griglia di lettura molto particolare di cui non possiamo che abbozzare l'analisi (con tutti i rischi che comporta un tale esercizio nel caso di un documento così "contorto").
Ogni immagine funziona come il diagramma esplicativo di una stazione del racconto- il cui rapporto al testo è, per così dire, fermo. I filatteri non intervengono che a fine lettura per fornire l'informazione prevedibile ed attesa; la vera parafrasi è data dalle didascalie versificate che occupano ciò che potremo chiamare un "primo piano" enunciativo: scritte al presente indicativo, esse sono disseminate di "Ecco" e di "Guardate"- in cui si indovina l'influenza della frottola dei venditori ambulanti di immagini.
I disegni non parlano attraverso le "bolle", nel senso dinamico ed animato che diamo oggi a questo procedimento. Le banderuole occupano un retro piano nella profondità della lettura, non fanno che confermare gli atteggiamenti stereotipi che compongono ogni scenetta diagrammatica. In quest'apparato di enunciazione a piani multipli, l'immagine non ha alcuna autonomia, essa è totalmente incastonata nella rete testuale.
Non conosciamo altro esempio di un tale sovrasfruttamento della procedura della "banderuola parlante", né prima né dopo L'Orribile ed Infernale Complotto Papista. Caso mai, questo sovraccarico di filatteri rinvia senz'altro oronicamente al corpus denunciato- libelli, canzoni, dicerie e glosse, che propagano la menzogna tanto più efficacemente quanto la loro struttura enunciativa si dà come impersonale e non soggettiva.
Un secolo dopo Francis Barlow, sempre in Inghilterra, il filatterio ritorna in forza nelle caricature politiche di James Gillray(1756-1815). Lontane eredi dell'allegoria politica "alla olandese" (che faceva già parte del paesaggio culturale inglese all'epoca di Barlow), e soprattutto delle satire del grande William Hogarth (1694-1767), le tavole di Gillray propongono una visione satirica brutale del mondo politico e dei costumi dell'epoca. Le sue caricature settimanali sono legate all'attualità e proiettano i potenti in allegorie di una rara cattiveria. Ciò che qui ci interessa, è il posto ed il ruolo enunciativo del filatterio situato in una scrittura in cui si combinano il vecchio sistema dell'allegoria e dell'emblema e quello, più recente, dell'interpretazione fisiognomonica.
Quando passeggia con il suo taccuino di disegni nei corridoi del Parlamento e ovunque dove ha una possibilità di incontrare delle personalità importanti, Gillray non fa che professionalizzare un gioco praticato correntemente nella buona società dell'epoca: la caricatura è uno di quei passatempi che si coltiva in famiglia e tra amici da quando un famoso amatore, George Townsend, l'ha popularizzata in Inghilterra, nella seconda metà del XVIII secolo. I lettori delle sue tavole politiche sono perfettamente iniziati all'arte della caricatura. In questo sistema fondato sulla somiglianza, l'autore grafico "parla" attraverso l'apparato retorico delle trasformazioni che egli inflige alle sue vittime ( queste ultime assumendo statuto di figure imposte, di pretesti ad esercizio di stile).
Le caricature di Gillray si appoggiano anche sull'allegoria, sistema molto più antico che traduce i fatti politici del giorno nel linguaggio tradizionale dell'emblema, del mito e della metafora. Le situazioni presentate prendono in prestito i loro strumenti ed i loro scenari dal mondo reale, ma si rivelano dunque delle pure costruzioni intellettuali. Su questo piano, come su quello della caricatura, la presenza dell'autore si afferma attraverso un'operazione retorica modelizzante: è interamente nella scelta di queste trasposizioni metaforiche, di cui ogni uomo colto deve possedere le chiavi e che parafrasano nel linguaggio dell'allegoria, le questioni morali del tempo.
James Gillray, Lilliputian Substitutes, Equiping for Public Service, (1801)
Questo quadro enunciativo è dunque chiaro e familiare ai contemporanei, basta, per orientare l'interpretazione del pubblico, di un titolo (spesso una frase breve ed allusiva) che danno la chiave della parafrasi: ancora una volta, è la didascalia che occupa il primo piano enunciativo, quello a partire del quale il lettore può determinare chi gli aprla ed attraverso quale apparato di enunciazione. In quanto al filatterio, che interviene frequentemente nelle sue tavole, è uno dei segni distintivi di Gillray, e costituisce certamente, alla svolta del XIX secolo, il riferimento tipo per l'utilizzazione della procedura.
Tutte queste incisioni sono eseguite con grande brio, una larghezza nel tralasciare i dettagli, che tradisce l'impazienza della mano, l'ebollizione del cervello. In molte caricature di Gillray, enormi didascalie coprono a volte più della metà del disegno, uscendo in forma di banderuole dalla bocca dei personaggi, zigzagando lungo lo scenario, sia che il pensiero non è sempre molto chiaro dal punto di vista grafico sia che la scrittura sembri al caricaturista un mezzo più rapido per espellere l'eccesso dell'immaginazione [da: "L'art du rire et de la caricature", di Arsène Alexandre, Librairies-imprimeries Réunies, 1890].
I filatteri di Gillray non somigliano più agli orifiamma ben ordinati di Barlow, graficamente, essi si avvicinano a ciò che chiameremo delle bolle. Contornate con un tratto vibrante, a volte raddoppiato o triplicato come per marcarne il carattere corsivo e compresso, esse obbligano spesso il lettore a riorientare la tavola per questo o quel blocco di scrittura che è ruotato di 90°: esse sono annidate dove possono e, manifestamente, non fanno parte della composizione iniziale (vi è certamente definizione di un secondo tempo dato a questa lettura di sfondo). Si nota anche che esse sono a volte trattate esse stesse in modo allegorico (Una tavolata di fumatori di pipa si esprime con dei fumetti*, ad esempio). L'operazione che consiste nel "mettere le parole nella bocca" dei suoi personaggi partecipa chiaramente dell'impresa allegorica genaralizzata.
Come scrive A. Alexandre, i filatteri zampillano, sono delle vere logorree di scrittura- monologhi in petto, disseminati di esclamazioni e di imprecazioni. Lo scrittore Henry Fielding aveva rivolto al pittore caricaturista William Hogarth quest'elogio che nessun caricaturista inglese poteva ignorare: Si tiene in grande considerazione un pittore quando si dice dei suoi personaggi che sembrano respirare; ma sicuramente essi meritano più grandi e più nobili complimenti se danno l'impressione di pensare.
Le tavole di Gillray (ad ogni modo quelle che fanno appello al filatterio) invitano il lettore ad articolare almeno tre livelli di enunciazione che si completano perfettamente. Ogni livello è chiaramente "autorizzato" da un soggetto che ne prende gli ordini: nella caricatura, è il disegnatore che fa funzionare in pieno la sua retorica della deformazione su dei ritratti che egli ha abbozzato, "rubati" in situazione reale- e secondo le regole ben note del suo pubblico; nella scelta dell'allegoria, è il moralista che seleziona le sue metafore scandalose nelle quali immergerà le sue caricature; attraverso il filatterio, è il doppione immorale e allegorico del modello reale che si esprime, moltiplicando le iteriezioni adatte a teatralizzare ancora un po' più le difformità del carattere che gli si presta.
Lasciando l'anima nera delle allegorie espandersi in un flusso di scrittura che "sfugge in banderuole dalla bocca" dei personaggi, Gillray non fa che confortare un quadro enunciativo sempre anche scritturale, ma questa volta fondato sull'onnipresenza di un autore che esagera, ingrandisce e deforma tutto ciò che traspone.
* In italiano nel testo.
Thierry Smolderen
[Traduzione di Massimo Cardellini]